Intervista a Giovanni Ruggiero

intervista Giovanni Ruggiero

Giovanni Ruggiero e la sua infanzia a Casaluce dove scoprì la passione per la fotografia

Che studi hai fatto?

Sono laureato in Giurisprudenza alla “Federico II” di Napoli, poi in età matura, per assecondare i miei interessi per la storia (che il liceo non ha mai saputo insegnarmi), mi sono laureato in Lettere alla “Sapienza” di Roma con indirizzo “Storia moderna e contemporanea”. Ma ho sempre fatto il giornalista. Mi iscrissi all’Ordine dei Giornalisti (elenco Pubblicisti) nel 1975. Nel 1990 sono diventato professionista ed ho lavorato come inviato speciale per il quotidiano “Avvenire” per circa 25 anni. Oggi sono in pensione.

Quali giochi preferivi nell’infanzia e da ragazzo?

A parte la pistola da sceriffo che mi regalavano alla Befana e che mi serviva per arrestare i banditi, giocavo spesso con il DAS. Poi dai 13 anni in poi avevo la bicicletta per evadere. In estate (sono nato a Casaluce) andavo sui Regi Lagni e facevo il bagno. Eh, sì! Allora si poteva.  

Quali sono le esperienze personali che credi abbiano definito la tua personalità?

In questo paesino dove sono nato, vivevo in uno di quei palazzi con il cortile interno (‘o luogo), abitato da membri della stessa famiglia: i fratelli e le sorelle di mia madre. Chiuso il pesante portone di legno, eravamo in un mondo tutto nostro. Ho avuto tanti padri e tante madri per quanti erano i miei zii e le mie zie. Presto da quando avevo 6 anni li ho visti morire. Allora si moriva in casa. La morte non era “asettica”. Coinvolgeva tutti. Le donne di casa, il giorno dopo il funerale, tingevano le vesti di nero con la “Tinta del Diavolo” per il lutto da rispettare. Poi, quando avevo 13 anni, ho visto morire anche mia madre. Scoprii la morte, ma cominciai a dare importanza alla vita. Alla gioia. Al sorriso. Tutti dobbiamo cercare di essere felici. Finché è possibile. Poi al liceo sentii dire di qualcuno che aveva scritto “Carpe diem quam minimum credula postero” e cose del genere. Io lo avevo intuito molto prima.

Credi di aver subito qualche tipo di trauma, nel bene o nel male, che ti ha portato ad intendere la fotografia in un certo modo?

Il colore è stato per me un “trauma”. Ho imparato i nomi dei colori con le carte delle caramelle che mi portava papà tutte le sere quando tornava da Napoli dal lavoro. Ero bambino quando feci una scoperta straordinaria. Guardando il sole, chiudevo gli occhi fino a vedere tutto nero. Poi li aprivo piano piano distendendo le palpebre e dal nero iniziale cominciavo a vedere con la luce in trasparenza il blu, poi il viola, il rosso, l’arancione, infine il giallo.

Quali libri leggevi da ragazzo e quali oggi? Il libro o una canzone che ha cambiato la tua vita?

Mi innamorai da ragazzino dei russi, per via di mio cugino Emilio che studiava all’Orientale ed aveva in casa “Le Memorie di un cacciatore” di Turgenev. Da lì sono passato a Dostoevskij, Tolstoj eccetera… eccetera. Poi i francesi. Forse ero troppo giovane per comprenderli in pieno, e molti li ho riletti avanti negli anni. Da 20 anni non leggo più narrativa, ma solo saggistica. Raramente leggo un romanzo, e sempre straniero. Gli italiani raccontano una realtà che già conosco. Con loro non “viaggio”. Con loro arrivo in luoghi dove sono già stato o forse da dove sono partito. Da ragazzino scoprii un cantautore, Leonard Cohen. Il brano “The Partisan” era la sigla di chiusura di un programma della “TV dei Ragazzi” che seguiva mia sorella. Mi appuntai il nome. Molti anni dopo, quando frequentavo l’Università e avevo qualche lira in tasca, presi il suo 33 giri “Songs from a room” dal mitico Cesarini alla Duchesca. Se trovate qualcuno che suona decentemente, chiedetegli di suonare “Bird on the wire” al mio funerale.

Possiedi un gatto o un cane? Vuoi raccontarci il rapporto che hai con lui?

Ho attualmente due gatti: Piccolina e Tigro. Rapporto? Ma loro non mi filano manco di liscio. Cerco di capirli. Ad esempio, so adesso per certo che quando Tigro mi viene incontro è perché l’avrò chiamato due o tre giorni fa e soltanto ora ha trovato un momento per me.

Quali sono per te i film che dovrebbe vedere un fotografo?

Mi capita di vedere spesso dei film soltanto per la fotografia, indipendentemente dalla storia o da chi siano gli interpreti. “Una canzona per Bobby Long”, per esempio, l’ho visto soltanto per la fotografia. Ho amato molto “Smoke”, forse perché Augie Wren utilizzava la mia stessa Canon, l’AE1, per quelle sue foto seriali sullo scorrere del tempo. Adoro il cinema americano. In cima metto Stanley Kubrick e Miloš Forman

Come ti sei avvicinato alla fotografia?

Quando ero bambino, per i paesini come quello in cui sono nato giravano fotografi ambulanti, i “magnifici randagi”, come li chiama Ando Gilardi. Scattavano la foto e poi una settimana dopo ritornavano con la piccola stampa. Ce n’era uno che mi fotografava tutte le volte che veniva dalle nostre parti. Rivedermi in quel pezzettino di carta, a 4 o 5 anni, era per me una sorta di incantesimo che mi emozionava tutte le volte.  A 10 anni smanettavo con macchinette fotografiche di poco conto. Quelle in cui dovevi spostare la tacchetta sul simbolo del sole o della nuvola. Ero affascinato dalla fotografia.  Visto questo mio interesse, mio cugino Oreste mi regalò circa 150 lastre al bromuro d’argento di un nostro antenato fotografo, Michele Comella, nato a Casaluce nel 1856 e morto qui nel 1926. Era pittore e fotografo ed aveva fatto parte dell’ultima Scuola di Posillipo. Ma questo l’ho saputo dopo. Passavo le ore a guardare queste lastre controluce accontentandomi di vederle in negativo. Erano il mio tesoro. A 17 anni finalmente il salto, il mio amico Gianluigi, giovane ingegnere, che mi insegnò a fotografare con una reflex, comprò per me, a cambiali, la mia prima vera macchina fotografica, una Canon FTql. Ogni mese gli davo la mia paghetta per onorare le rate. Quando papà seppe quanto avevo pagato per poco sveniva. Ho ancora dei negativi del 1971. A colori.

Quali fotografi/artisti hanno influenzato maggiormente il tuo lavoro?

Tutti quelli che hanno fatto largo uso del colore. Penso agli italiani Fulvio Roiter, a Lugi Ghirri, a Franco Fontana o ad americani come Ernst Haas. Questi, prima di tutti. Poi gli altri. Tuttavia il B&N era per noi ragazzi una grande possibilità. Stampando in casa era giocoforza sviluppare il bianco e nero. Costava di meno ed era meno complicato del colore. Poi ho capito che una foto in bianco e nero è più astratta di un quadro di Picasso. Perché la natura è a colori.  Gli alberi sono verdi, il cielo è azzurro, le mele sono rosse. Non sono, queste cose, insieme all’acqua, alle pietre e ai fiori, delle sfumature di grigio. Mi piace il B&N ma non sopporto quelli che dicono (ispirati): “Il bianco e nero è un’altra cosa”, senza spiegare perché.

Cosa cerchi di cogliere ed esprimere attraverso la fotografia?

Il sociologo Franco Ferrarotti sottolinea come le librerie siano stracolme di titoli sulla fotografia: come fotografare, quando fotografare, con cosa fotografare… Ma nessuno risponde alla domanda “Perché fotografare?”. Insomma, cosa spinge ciascuno di noi a comprare una macchina fotografica, fare fotografie, stamparle…? Credo che la risposta sia personale. E tutti dovrebbero porsi la domanda. Io fotografo le cose che amo. Una mia fotografia è un attestato d’amore verse le cose o verso le persone. Io amo la gente. Tutto il mio lavoro di giornalista per 40 anni si è svolto tra la gente. Amo l’umanità. Quando fotografo un uomo o una donna, un vecchio o un bambino, i nostri sguardi si devono incontrare. Non li colgo di sorpresa. Non rubo. Voglio che guardino in macchina, e che la macchina sia il tramite che consente l’incontro dei nostri sguardi.

C’è una parte della tua ricerca di cui vorresti parlare in particolare?

Ghirri o, meglio ancora, Fontana mi insegnarono che nel “frastuono visivo” che ci circonda è possibile cogliere dei particolari del caos che compongono con l’armonia delle linee e di colori  immagini ordinate, piacevoli e rigorose. Avevo pochi soldi e per fare queste foto mi dovetti accontentare di un 200 mm Soligor con moltiplicatore di focale così da isolare questi particolari armoniosi, estrapolandoli dalla confusione.  Nel 1975 ho scoperto i manichini, quelli dei negozi, ai quali non avevo mai badato.  Me li fece scoprire una canzone di Gino Paoli che traduceva il cantautore catalano Joan Manuel Serrat. Il brano “Il Manichino”, appunto, è la storia di una follia. Un uomo, che dalle donne si è visto sempre sputare addosso dei no, s’innamora di un manichino, fino a rubarlo da una vetrina e a potarselo a casa per farci l’amore. Cominciai a fotografare i manichini nel 1976, ma solo nel 2018 ho raccontato fotograficamente l’ultima strofa della canzone, quella in cui quest’uomo disperato può finalmente abbracciare l’oggetto del suo desiderio. Da circa 20 anni mi sono messo su una strada che fa storcere il naso a molti perché – a loro avviso – mi sono allontanato dalla fotografia. Ho iniziato ad “offrire” la fotografia in maniera non convenzionale. Non più l’immagine stampata ed incorniciata, ma una fotografia contaminata con altri materiali: garza, fiori, oggetti. E quasi sempre è contenuta in cassette di legno.

Cos’è per te la bellezza?

È l’unica cosa che consente di distinguere il bene dal male. Non la religione, non la morale, non le leggi. È la bellezza che stabilisce il limite.

Arte e fotografia. Secondo te qual è il confine, se c’è, nella fotografia affinché possa essere considerata arte?

Ho sempre creduto che la fotografia, intesa come “il gesto del fotografare” o come “risultato del fotografare”, stia nell’attimo (o attimi) che precedono lo scatto, quando cioè il fotografo decide cosa vuole ottenere. Quando è lui che stabilisce il risultato, in quel momento è un artista ed il risultato del suo fotografare è un prodotto artistico.

Descrivi un mondo migliore.

Non è esiste e non è mai esistito. Il mondo migliore è quello in cui tutto è deciso dalla natura. Non esisterà mai.

C’è qualche fotografo o una fotografia in particolare che vorresti raccontare?

Una foto che mi fece sobbalzare: “Bottega a San Gregorio Armeno” del 1981 di Mimmo Jodice. La vidi in un fascicolo della collana “I Grandi Fotografi” del Gruppo Editoriale Fabbri. Io e il maestro napoletano avevamo fotografato la stessa persona (un restauratore di statue di gesso), e fin qui nulla di strano. Il fatto è che lo avevamo fotografato a distanza di pochi minuti l’uno dall’altro. Quel giorno io e Mimmo Jodice eravamo lì a San Gregorio. Quando ho avuto modo di intervistare il maestro in occasione dei suoi 80 anni, gli mostrai le due foto e ci divertimmo a commentarle. Jodice aveva usato un 50 mm, io un 28mm. Ma c’è un’altra curiosità: entrambi avevamo costruito l’immagine su una diagonale che unisce l’angolo superiore sinistro con l’angolo inferiore destro.

Nel tuo Pantheon immaginario di artisti o fotografi eccellenti, chi c’è? Perché?

Vedo (perché amo il ritratto) Nadar sopra tutti come se fosse Giove, e poi giù giù tutti gli altri dei. E non mancano le dee. Nadar suscita in me la nostalgia del cavalletto che evoca la foto riflessiva, ragionata. Alla destra di Giove/Nadar sono portato a collocare Herbert List per la sua capacità di trovare il classico nella modernità; alla destra di Giove/Nadar metto August Sander. Dove posava l’occhio trovava la bellezza. La bellezza degli sguardi.

Secondo te chi è il tipo di persona che acquista le tue foto al PAM?

Certamente appassionati di fotografia che vogliono tenere in casa un prodotto non di serie. Credendo quasi che è stato fatto apposta per loro. Perché in esso hanno riconosciuto qualcosa di sé. Forse pensano: “L’avrei fatta anche io così!”.

Cos’è per te il PAM?

È per me un’importante occasione di confronto e di dialogo, non solo tra i colleghi, molti dei quali conoscevo solo di nome, ma anche con il pubblico che in occasione dell’edizione a cui ho partecipato si sono fermati a discutere con me. Una giovane signora che non ha mai fotografato in vita sua mi fece capire, con il suo ragionamento, che una fotografia pensata per un portfolio, non ha alcun significato se è presentata fuori dal contesto in cui è stata ideata e realizzata.

 

La foto di copertina è di Filippo Tufano