Intervista a Marco Maraviglia

Marco Maraviglia intervista PAM

Marco Maraviglia racconta il suo percorso personale, professionale e artistico

Che studi hai fatto?

Ho un diploma di geometra ma non ho mai esercitato se non per qualche disegno e rilievo o per realizzare plastici per alcuni studi tecnici di architetti ed ingegneri.

Poi nel 2003 presi da privatista il diploma di grafica pubblicitaria e fotografia all’ISA Boccioni di Napoli portando tutte le materie dei cinque anni.

E nel 2011 fui il primo a conseguire la laurea triennale di Graphic Design presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli.

La qualifica di Tecnico Pubblicitario che ebbi nel 1987 previo un esame di tre prove scritte molto toste con una commissione composta dal gotha della pubblicità nazionale, non è un titolo di studio, ma mi fa piacere citarlo come percorso di studi che ho effettuato nel campo della comunicazione, marketing e giurisdizione pubblicitaria.

In realtà non bisognerebbe mai smettere di studiare. Per me anche leggere certi libri o frequentare mostre e musei è un po’ come studiare.

Quali giochi preferivi nell’infanzia e da ragazzo?

Sono cresciuto con due fusti di detersivo pieni di Lego. All’inizio mi regalavano le “prefabbricate”, poi videro che non seguivo i fogli di istruzioni per riprodurre ciò che stava sulla fotografia della scatola ed iniziarono a comprarmi le scatole di mattoncini sfusi per lasciarmi libero di costruire ciò che immaginavo.

In casa, per motivi professionali di mio padre, c’era tanto materiale di arti grafiche: tempere, pennelli, acquerelli, aereografi… Sperimentavo tutto ed ho ancora conservati i disegni che facevo tra cui un vero e proprio story-board di una storia fantastica (una tv che consentiva di vedere il futuro) e una sequenza per un cartone animato che volevo fare visto che avevamo la cinepresa Paillard col “passo uno”: “supergatto”, un gatto volante con mantello e non sapevo ancora l’esistenza di Batman ma mi ero semplicemente ispirato a Super Pippo della Disney. Se un cane poteva volare, per par condicio anche un gatto poteva.

Quali sono le esperienze personali che credi abbiano definito la tua personalità?

C’è stata una fase della mia vita in cui ho villeggiato per tanti anni in un villaggio di Sorrento dove ho incontrato persone che ancora oggi frequento. Sviluppai in quegli anni il senso dell’amicizia che ritengo uno dei valori fondamentali per la personalità di un individuo. A parte gli anni in cui ero incaricato nel fare l’animatore, esperienza che mi servì nell’imparare a rapportarmi con le persone, in quel periodo capii l’importanza del viaggiare per conoscere realtà diverse. Non viaggiavo all’epoca, ma era come se lo facessi ascoltando le storie ed esperienze anche di quelle degli stranieri. Parlare in inglese non era un problema perché c’era sempre chi lo capiva meglio di me e faceva da interprete.

Credi di aver subito qualche tipo di trauma, nel bene o nel male, che ti ha portato ad intendere la fotografia in un certo modo?

Persi mia madre il giorno dopo che compii 12 anni. Forse fu in quel periodo che iniziai a distrarre la mia mente scrivendo diari che custodisco ancora e nei quali affiorano scritti immagnifici, poesie surreali. Mi immersi totalmente nella musica. Non studiavo, non facevo i compiti ma imparai a conoscere le sonorità dei Pink Floyd, le “sinfonie” degli Emerson Lake & Palmer e l’energia di Jimi Hendrix scaricava la tensione di quel senso di abbandono che mi portavo dentro.

Quando realizzai il fatto che non ero in grado di ascoltare conversazioni a bassa voce, mi resi conto di essere sordo. A 23 anni presi provvedimenti tecnici per superare questo problema e tutt’ora me la cavo nell’ascoltare. Una volta lessi un articolo sulla rinomata rivista Progresso Fotografico: “Il silenzio è creativo”. Portava esempi di alcuni fotografi, grafici, creativi sordi (tra cui Beethoven) e spiegava che il silenzio fisico faceva scatenare meccanismi di auto-difesa psicologici che portava il campo di immaginazione fuori le righe.

Ecco, quando scatto fotografie cerco di individuare un’armonia compositiva in ciò che riprendo, se c’è “rumore visivo”, una persona che non sta dove vorrei che fosse, un lampione che spunta dietro a un soggetto… non scatto istintivamente. Cambio punto di vista o tutta l’inquadratura. O non scatto affatto.

Le immagini che produco per la mia ricerca (Impossible Naples ndr) sono frutto del “silenzio”: cerco precisione, armonia, ritmo ricreando contesti del tutto immaginati.

Insomma, se un senso viene meno, è biologico che almeno un altro si potenzi.

Quali libri leggevi da ragazzo e quali oggi? Il libro o una canzone che ha cambiato la tua vita?

A 12 o 13 anni “Scuola” di Eugenio Finardi, mi aprì un mondo. In quel testo c’è il miglior suggerimento che un ragazzo possa avere: studiare ma imparare anche ciò che la scuola non è in grado di darti.

Da adolescente ho letto Hesse, Hemingway, Bukowski, “On the Road” di Kerouac, Oriana Fallaci. Tutti libri che sicuramente hanno influenzato, e spero nel meglio, la mia personalità.

Poi non potevo non leggere le biografie di Fidel Castro e Che Guevara e altri libri “anti” come “Regime” di Travaglio o “No Logo” della Klein.

Solo negli ultimi anni ho iniziato a leggere libri dei protagonisti che “muovono” l’arte (storici, critici, curatori, direttori di musei) come Settis, Montanari, Bonami, Vettese, Dorfles… e ovviamente Gombrich.

Uno dei libri più belli che abbia letto è “Autoritratto” di Man Ray. Leggendolo mi è sembrato di vivere in pieno il periodo del surrealismo accanto a Man Ray.

Possiedi un gatto o un cane? Vuoi raccontarci il rapporto che hai con lui?

Fidelita è la mia gatta in smoking (in Inghilterra i gatti neri con zampette bianche e “camicia” bianca li chiamano tuxedo cat). È la mia ombra. Dove ci sono io c’è lei. C’è un’empatia totale e reciproca.

Tra cento anni spero di scrivere un libro sulla nostra storia d’amore.

Quali sono per te i film che dovrebbe vedere un fotografo?

Credo che i film girati dai registi che provengono dal mondo della pubblicità, fotograficamente, siano tra i migliori. Parlo di Adrian Lyne e dei fratelli Ridley e Tony Scott.

Poi certi film del grande direttore della fotografia Vittorio Storaro andrebbero assolutamente visti come “Ultimo tango a Parigi” e “Apocalypse now”.

Altra firma italiana della fotografia cinematografica che è una garanzia è Tonino Delli Colli.

Ovviamente un fotografo non può non vedere “Barry Lyndon” di Stanley Kubrick che valse un oscar per la fotografia a John Alcott.

E comunque film come “Matrix” o “Il signore degli anelli” o altri di fantascienza o fantasy, non dovrebbero mancare nel background visivo di un fotografo.

Suggerirei inoltre di osservare attentamente gli spot pubblicitari: lì è difficile che vi sia una luce sbagliata.

Come ti sei avvicinato alla fotografia?

A sei anni mi fu regalata una Kodak Instamatic per la I Comunione. Il mio primo “servizio fotografico” lo scattai a Paestum durante una gita scolastica. La maestra ricordo che voleva le mie foto perché le piacevano. Ovviamente gliele negai. Forse per un istinto di copyright innato.

Mio padre, sempre per motivi di lavoro, aveva la sua camera oscura. Era “la stanza segreta” nella quale non potevo accedere per evitare che entrassi in contatto coi barattoli di solfito, metolo, idrochinone… Poi, quando avevo 10-11 anni mi insegnò la magia della stampa mostrandomi come si facevano i rayogrammi.

A quell’età sviluppavo a mano (senza tank) i miei rullini, ne stampavo le foto e le inserivo nella smaltatrice.

Quali fotografi/artisti hanno influenzato maggiormente il tuo lavoro?

Purtroppo o per fortuna, non ho mai avuto riferimenti.

In uno studio che mise in piedi mio padre negli anni ’80 arrivavano i cataloghi della Image Bank e di altre agenzie fotografiche. Li sfogliavo per imparare come doveva essere una fotografia di stock vendibile per la comunicazione (gestivo il mio archivio di diapositive e tutte le agenzie pubblicitarie di Napoli mi conoscevano col marchio Clik for Look).

Compravo ZOOM e Progresso Fotografico e scoprii Helmut Newton, Robert Mapplethorpe, Art Kane che non cercai di emulare perché ho sempre pensato che se qualcosa è già stato fatto, è inutile tentare di ripetere. Ma mi resi conto che la fotografia poteva trasmettere una bellezza straordinaria. E così compravo King (edizione della ERI – RAI) dove ammiravo i lavori di Angelo Cozzi, Bruce Weber e del nostro Guido Harari, un punto di riferimento per chi, come me negli anni ‘90, seguiva fotograficamente i concerti.

C’è una parte della tua ricerca di cui vorresti parlare in particolare?

Mi rendo conto che la mia produzione Impossible Naples non è di facile lettura. La gente, non è abituata a leggere testi lunghi e quindi non è nemmeno allenata a leggere immagini elaborate.

Pur piacendomi la semplicità grafica di una fotografia, la sua essenzialità per la serenità che mi trasmette, le mie “inesistenze” (luoghi ricreati e quindi impossibili, ndr) sono spesso complesse e a un primo sguardo possono essere percepite caotiche.

Cos’è per te la bellezza?

Per me la bellezza è armonia, ritmo, musicalità, equilibrio delle forme e degli spazi. Rettangolo e spirale aurea non sono fesserie. Le sculture elleniche con i loro rapporti aurei fino all’apoteosi del geometrismo del Discobolo, è bellezza.

Se pensiamo che Leonardo da Vinci e Antoni Gaudì sono stati grandi osservatori della natura per realizzare i loro progetti, ci rendiamo conto che hanno fatto centro.

L’interdisciplinarietà della Bauhaus e i relativi studi di ergonomia, è bellezza.

Non è vero che la perfezione è maniacale. È ordine! Per me tutto ciò che è ordine, è serenità. La bellezza è serenità. Connettere la mente con l’armonia.

Insomma, ho un concetto di bellezza aristoteliano.

Arte e fotografia. Secondo te qual è il confine, se c’è, nella fotografia affinché possa essere considerata arte.

Non mi sono mai posto il problema. Penso piuttosto se certe fotografie le comprerei per arredarmi la casa o per appenderle nel mio ufficio.

Ognuno ha il proprio gusto. Il senso estetico matura in base al proprio vissuto culturale. C’è chi preferisce appendere nel salone una 70×100 del giorno del proprio matrimonio e chi la propria collezione di CdV (Carte de Visite, biglietti da visita dei fotografi con foto della metà ‘800).

Per quanto mi riguarda, l’unica foto esposta in casa mia che non fa parte di Impossible Naples, è un’opera di Victor Enrich.

Descrivi un mondo migliore.

Inutile. Non potrebbe mai esserci un mondo migliore.

Penso piuttosto a quel mondo in cui sarò tra 100 anni dove sarò in compagnia delle persone più belle conosciute nella mia vita, con gatti a gogo che si rincorrono e tutti, umani e animali parlano la stessa lingua.

Dare valore a oro, denaro, diamanti è per me la piaga dell’umanità. Il denaro genera corruzione, potere contrattuale per raggiungere interessi unilaterali. Immagino un mondo in cui non esista denaro ma la condivisione e solidarietà disinteressata. Ci feci un esame di design da 30 e lode su questo concept: lo Zeromoney.

E poi un mondo senza confini geografici, religiosi, mentali… Ho dedicato l’opera “Accesso libero” a questo concetto.

C’è qualche fotografo o una fotografia in particolare che vorresti raccontare?

Mi piacciono le piccole chicche della sperimentazione fotografica analogica tipo quelle di Nino Migliori e Man Ray.

All’Albertina Museum di Vienna ebbi modo di vedere Tunbridge Wells (1865) di Henry Peach Robinson e fu un’emozione indescrivibile osservare da vicino la stampa originale di uno dei primi sandwich della storia della fotografia.

Altra foto che mi ha stupito è un dagherrotipo del 1840 realizzato da Noel-Marie-Paymal Lerebours, Mortage of Faces of the Famous: un complesso fotomontaggio che riproduce un insieme di volti famosi, tratti da vari dipinti, tra cui Napoleone, il duca di Wellington e la regina Vittoria.

Nel tuo Pantheon immaginario di artisti o fotografi eccellenti, chi c’è? Perché?

I surrealisti come Dalì, Magritte o artisti-architetti come Hundertwasser e Gaudì li annovero tra le eccellenze della creatività visiva e per aver dato un ottimo e suggestivo rapporto uomo/ambiente.

Picasso col cubismo ed Escher con le sue prospettive impossibili, credo che abbiano espresso alla grande il fatto che abbiamo dei limiti nel modo di concepire la vita spesso vista da un solo punto di vista. Hanno definito veri e propri punti di rottura in cui l’immagine mentale può in un certo senso essere comunque visualizzata.

Sul vertice della Piramide c’è Leonardo da Vinci. Per la sua poliedricità creativa e perché anche lui ha osservato attentamente la natura trasferendo l’esperienza visiva nella pittura e per aver lasciato incompiute alcune opere. Un genio è un vulcano di idee alle quali non riesce sempre a starci dietro.

Vorrei accennare un attimo ad alcuni artisti viventi che li sento molto vicini al mio modo di lavorare. Alcuni di loro li ho conosciuti personalmente e sono Victor Enrich, Emily Allchurch, Barbara Nati, Giorgio Lo Cascio.

Secondo te chi è il tipo di persona che acquista le tue foto al PAM?

Sicuramente è un “open mind”, una persona curiosa che non si ferma alla superficie delle cose. È il tipo che quando va in viaggio resta anche quattro ore in un museo e prende appunti in un Moleskine. È quello che colleziona non per fare investimenti ma perché guidato da un proprio interesse emozionale e intellettuale. Forse è un architetto ma sicuramente è un appassionato di Napoli. E tanto altro.

Cos’è per te il PAM?

Per i fotografi è l’unica occasione a Napoli (e forse in Italia) per incontrare direttamente persone interessate ad acquistare immagini esclusive, a tiratura limitata e a prezzi accessibili.

Anche se capita in qualche edizione di non vendere nulla, dialogando con addetti ai lavori e non resta comunque un’esperienza che mi arricchisce umanamente e professionalmente.